Se è vero che sempre più donne nel mondo decidono di diventare imprenditrici e di aprire la propria attività, contribuendo in questo modo a creare posti di lavoro e a migliorare l’economia del loro paese, non si può negare che devono affrontare maggiori ostacoli dei loro colleghi uomini per avviare e far crescere il proprio business.
Come visto sopra, la loro prima sfida è rappresentata dall’accesso ai finanziamenti, ma esiste anche un notevole divario retributivo tra uomini e donne. Un report del JPMorgan Chase Institute ha infatti rivelato che il reddito delle donne imprenditrici è del 34% inferiore a quello dei loro colleghi uomini nel primo anno di attività. E in seguito, l’aumento del loro reddito rimane comunque sensibilmente inferiore rispetto agli uomini.
E in Italia?
L’imprenditoria femminile continua a crescere: nel complesso, le attività produttive a conduzione femminile hanno superato la quota di un milione e 330 mila unità, pari al 21,86% del totale delle imprese, contro il 21,76% dell’anno precedente (fonte: Osservatorio Imprenditoria Femminile di Unioncamere – InfoCamere). Si conferma il dato relativo alla dimensione media delle imprese al femminile, che sono più piccole, con 2,32 addetti contro i 4 del totale delle imprese.
In pratica, soltanto un’attività su cinque è guidata da una donna.
Sono 14 su 20 le regioni in cui cresce l’imprenditoria femminile, con punte in Sicilia, Lazio, Campania e Lombardia. A livello settoriale, le imprese femminili si concentrano in particolare nel turismo e nelle altre attività dei servizi, tra cui al primo posto ci sono i servizi alla persona.
Cambiano però le forme societarie scelte dalle imprenditrici italiane, che sembrano prediligere quelle più strutturate: le società di capitali femminili sono aumentate di quasi il 17% rispetto a tre anni prima, arrivando a rappresentare oltre il 21% delle imprese femminili; le società di persone e le imprese individuali restano comunque la forma giuridica più diffusa, anche se la percentuale risulta ridotta. La presenza femminile nelle giovani società innovative è addirittura minore che nelle aziende.
Eppure alcuni studi e ricerche internazionali dimostrano la correlazione positiva delle performance aziendali con leadership femminile sia nelle startup sia nelle aziende tradizionali. In particolare, rivelano che le startup fondate anche da donne hanno maggiore probabilità di ricevere investimenti rispetto a quelle costituite da soli uomini; e sostengono che le donne sono più adatte a individuare i bisogni del mercato e a coglierne le opportunità.
Chi sono le nuove imprenditrici?
Ecco il profilo dettagliato della neo imprenditrice italiana, fotografato dall’indagine di Unioncamere: ha meno di 40 anni (nel 60% dei casi, contro il 55% maschile), ha un livello di istruzione alto e mediamente più elevato di quello degli uomini (il 20,8% ha una laurea, contro il 16,1% dei colleghi imprenditori, il 46,1% un diploma superiore, mentre gli uomini si fermano al 44,7%), e una precedente esperienza lavorativa maggiormente qualificata (il 18,5% ha alle spalle un’esperienza da impiegata o quadro, contro il 14,3% degli uomini). Invece è più raro il caso di una precedente esperienza imprenditoriale o “in proprio”: solo il 6,9% delle donne aveva alle spalle una precedente esperienza da imprenditrice o da lavoratrice autonoma (15,2% per gli uomini), e solo il 3,5% svolgeva una libera professione (5% per gli uomini).
Il futuro è rosa?
Ci sono molte ragioni per cui le donne faticano ad affermarsi sul lavoro, ad ottenere retribuzioni pari a quelle maschili a parità di compiti e a salire ai livelli più alti. Per esempio, si legge nel Global Gender Gap Report 2018, pubblicato dal World Economic Forum, che le donne sono sottorappresentate nei settori maggiormente in crescita per quanto riguarda le prospettive occupazionali, nei quali si accede se in possesso di conoscenze e competenze in scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, le cosiddette STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics).
Un altro possibile motivo all’origine del divario di genere è legato alla carenza di infrastrutture per aiutare le donne ad entrare (o tornare) nel mercato del lavoro, per esempio asili o centri di assistenza per anziani. Purtroppo, in Italia, il lavoro non retribuito resta principalmente a carico delle donne, penalizzandole professionalmente.
“Il problema – spiega Claudia Pingue, general manager del PoliHub, l’incubatore d’impresa del Politecnico di Milano – non è biologico ma sociale e culturale, con un non trascurabile impatto economico”. Cosa si può fare per incoraggiare un cambio di paradigma culturale e sociale nelle nuove generazioni? “Offrire role model diversificati che possano creare maggiore consapevolezza nella scelta delle proprie passioni, evitando appiattimenti e polarizzazioni di genere”.
Si deve quindi intervenire sulla formazione, incoraggiando bambine e ragazze ad acquisire le STEM, in modo da riuscire a superare gli stereotipi di genere. Ma anche pensare a normative destinate ad agevolare l’imprenditoria femminile in Italia, che vadano al di là dei meri incentivi finanziari, introducendo misure atte a coniugare in modo equilibrato l’impegno professionale e i bisogni personali e familiari delle donne.
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