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IL DIBATTITO SULL’OCCUPAZIONE FEMMINILE

Con tasse più leggere per le donne anche il Fisco guadagna

Condividiamo quest’articolo di Alberto Alesina e Andrea Ichino

Differenziare l’Irpef per genere, riducendola per le donne e aumentandola (poco) per gli uomini. Questa proposta che abbiamo avanzato sul Sole-24 Ore del 27 marzo (e in forma più tecnica e completa nell’articolo che si può leggere su http://www2.dse.unibo.it/ichino/#papinprog) ha suscitato un dibattito acceso. I commenti, sia positivi sia negativi, hanno però in parte trascurato un aspetto cruciale: questa idea consente di diminuire la pressione fiscale media a parità di gettito ed è quindi un modo per ridurre il cuneo fiscale senza costi per il bilancio. Il “miracolo” opera così. Immaginate di alzare di un punto percentuale l’aliquota degli uomini abbassando quella delle donne in pari misura. Come statisticamente dimostrato, gli uomini continuerebbero a lavorare in modo quasi invariato mentre le donne aumenterebbero la loro offerta di lavoro. Quindi la base imponibile degli uomini rimarrebbe (quasi) uguale e aumenterebbe il gettito fiscale “maschile”. La base imponibile femminile, invece, aumenterebbe, e il taglio delle aliquote per le donne ridurrebbe relativamente poco il loro gettito fiscale.

Per questo il gettito fiscale femminile diminuirebbe meno di quanto aumenterebbe quello maschile e le entrate totali per lo Stato sarebbero maggiori. Ne consegue che, a gettito invariato, basterebbe aumentare l’aliquota per gli uomini di un ammontare inferiore alla diminuzione dell’aliquota per le donne, abbassando così la pressione fiscale media. Prima ancora che al ministro della Pari Opportunità, questa proposta dovrebbe interessare al ministro dell’Economia.
I commenti si sono invece focalizzati sugli effetti per l’occupazione femminile, sulle implicazioni redistributive, sulla costituzionalità e sulla consonanza con le direttive di Bruxelles. Ciò ci ha sorpreso perché gli obiettivi della nostra proposta, così come le sue possibili controindicazioni in termini di equità e legittimità, sono comuni a tanti altri interventi impliciti o espliciti a favore delle donne, che sono stati realizzati senza batter ciglio. In più, è meno distorsiva ed è a costo zero per il bilancio. Le critiche che sono state mosse si possono riassumere in quattro punti.

Più asili nido sussidiati dallo Stato, non meno tasse. Questo tipo di obiezione riflette un modo di pensare secondo cui lo Stato paternalista deve decidere come i cittadini debbano spendere i propri soldi. Invece di aumentare il reddito diponibile delle famiglie, così che queste possano usarlo come vogliono, lo Stato le tassa di più (i sussidi agli asili costano) e “dice” loro come spendere i soldi: asili nido sì, baby sitter, nonni o altre soluzioni no. Con un maggiore reddito disponibile gli asili nido sarebbero più accessibili ai prezzi di mercato. Non solo, ma dato che gli asili impiegano soprattutto donne, costerebbero meno e nuovi ne verrebbero creati. Con un maggiore reddito disponibile le famiglie avrebbero la possibilità di assumere baby-sitter, più funzionali degli asili quando i figli si ammalano e più flessibili dal punto di vista degli orari.

I sussidi ad asili nido e altre politiche simili sono a ben vedere un incentivo alla fertilità, non al lavoro femminile in senso stretto, oltre a non generare alcun beneficio in termini di riduzione delle aliquote (anzi le alzano). Promuovere le nascite può essere socialmente utile, ma la nostra proposta non si propone questo obiettivo e non va valutata con questo parametro. Ci sembra invece che le donne debbano essere compensate indipendentemente dal fatto che abbiano figli o meno, perché i datori di lavoro temono comunque il rischio delle assenze legate alla maternità e per questo, a parità di caratteristiche professionali, preferiscono assumere un uomo o remunerano meno le donne. Infine, non è neppure dimostrato che la mancanza di asili nido sussidiati pubblicamente sia il vero motivo della scarsa natalità in Italia. Negli Usa il tasso di natalità è molto più alto e i sussidi pubblici agli asili non sono certo generosi.

Favorire il part-time e il telelavoro. Nulla in contrario, specie per il secondo: siamo sicuramente a favore di un mercato del lavoro più flessibile che si adegui alle esigenze di chi vi partecipa. Va però anche detto che il part-time costa alle aziende, tranne che in casi molto particolari di perfetta intercambiabilità tra lavoratori sullo stesso impiego. Mentre gli incentivi pubblici al part-time sarebbero di nuovo costosi per il bilancio, la nostra proposta renderebbe l’assunzione di donne con contratti part-time di fatto meno onerosa.

Effetti redistributivi. Spesso riforme capaci di generare un aumento di benessere complessivo non sono adottate perché di tale aumento godrebbero solo alcuni sottogruppi particolari della popolazione, mentre altri potrebbero essere addirittura svantaggiati, anche se in misura inferiore al beneficio goduto dai primi. E compensare i “perdenti” non empre facile. La nostra proposta ha il pregio di realizzare una buona parte di queste compensazioni all’interno della famiglia. Aumentando di poco le tasse al marito e riducendole di molto alla moglie si può diminuire l’aliquota media e quindi accrescere il reddito netto familiare, con un tornaconto anche per i mariti. Rimarrebbero privi di un facile accesso a compensazioni solo gruppi relativamente ristretti di popolazione: in particolare gli uomini single e le famiglie in cui la moglie sceglie (ripetiamo “sceglie”) di non lavorare anche in presenza di tasse inferiori. Si ricordi però che le “madri single”, favorite dalla nostra proposta, sono una categoria particolarmente a rischio di povertà e potrebbero aver bisogno di un sussidio pubblico.

Equità, incostituzionalità e direttive di Bruxelles. Non riusciamo a trovare nella Costituzione italiana argomenti che la Corte costituzionale possa utilizzare per dichiarare illegittima la nostra riforma. Ma su questo siano i giuristi a esprimersi. Non capiamo, però, perché lo sconto Irap per il Mezzogiorno con riduzione addizionale nel caso di creazione di nuova occupazione femminile, previsto dall’ultima Finanziaria, possa essere costituzionale (e tra l’altro costa ai contribuenti) mentre la nostra proposta non lo sarebbe.

I richiami alle direttive della Ue sono poi particolarmente deboli. La celebrata agenda di Lisbona (invocata solo quando fa comodo) propone di favorire l’occupazione femminile, soprattutto in Paesi in cui essa è sotto la media europea, come l’Italia. Come potrebbe, allora, una proposta finalizzata a questo obiettivo essere contro lo spirito delle direttive di Bruxelles? Qualsiasi politica che favorisca l’occupazione femminile non può che creare vantaggi economici per le donne e indirettamente per le imprese che le assumono. In ogni caso questi richiami all’Europa ci appaiono motivati solo da esigenze politiche italiane. Sgravi fiscali per il Sud sono sicuramente non consoni allo spirito comunitario così come i sussidi diretti e indiretti all’Alitalia e la difesa dell’italianità di Telecom. Se non vi disturba questa ipocrisia, sussidiamo pure l’Alitalia e il Mezzogiorno, favoriamo gli acquirenti italiani di Telecom, ma non le donne che lavorano e le loro famiglie.

Alberto Alesina
aalesina@harvard.edu
Andrea Ichino
andrea.ichino@unibo.it

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